DOPPIO MISTO

   Spesso i ricordi di gioventù appaiono dolorosamente vaghi nella mente dei vecchi. Le emozioni provate in anni lontani, magari in un altro secolo, vengono trasmesse alla mente provetta mai in modo nitido e preciso. Tutti gli avvenimenti del lontano passato sono vagliati alla luce dell’esperienza e delle successive sconfitte, sempre più penose, sempre più dolorose col passare delle stagioni, per cui la verità storica dei singoli eventi si diluisce in un mare di situazioni presenti e passate e intatta rimane solo la consapevolezza di aver vissuto un tempo che è scomparso, nulla più.

Eppure gli avvenimenti di quell’estate del 1962, l’estate dei miei diciassette anni, io li ricordo bene. Mio padre, che Dio ne abbia misericordia, era un quarantacinquenne industrialotto della Valtrompia, settore armi da caccia. Era un uomo sempre immerso nel lavoro, calvinista in senso weberiano, tutto casa-lavoro-amante. Regalava a mia madre (e suppongo alle sue amanti) oro e gioielli per i loro anniversari, ma mai fiori. Credo che fosse perché in fondo oro e gioielli sono degli investimenti durevoli, mentre i fiori dopo tre giorni sono da buttare. Tradiva regolarmente mia madre con una ballerina che girava l’Italia con la Compagnia di Gino Bramieri. Del resto l’amante era uno dei pochi lussi che si permetteva. L’altro lusso era quello di mandare in agosto me e mia madre in villeggiatura in un hotel a cinque stelle di Santa Margherita. In realtà più che un lusso era un escamotage per potersene stare solo per tutto il mese con la sua ballerina di seconda fila. Ma tutte queste cose le venni a sapere molto tempo dopo.

L’hotel era bellissimo. Aveva una piscina e due campi da tennis in terra battuta, oltre naturalmente a una spiaggia privata. Vivevamo in una suite con due camere e un bagno. Si pranzava e cenava al ristorante dell’hotel, quando non si era invitati da nostri conoscenti. E di conoscenti ne avevamo parecchi, tutti ricchissimi e intenti a fare a gara per dare il ricevimento più splendido, le signore per mostrare la toilette più luccicante e costosa, gli uomini per ospitare gli invitati nello yacht più grande lussuoso e moderno.

Io avevo terminato con discreto successo la seconda Liceo Classico, ero timido  insicuro e illibato  e odiavo le feste di quelli che di lì a qualche anno avrebbero chiamato matusa. Ma non potevo lasciare sola mia madre. Del resto, dal punto di vista di mio padre, la mia presenza avrebbe ostacolato eventuali flirt di mia madre. Il vecchio, sebbene fosse infedele, non mancava di gelosia riguardo a ciò che riteneva comunque di sua proprietà. Tra le coppie del nostro ambiente ce n’era una che alloggiava nel nostro stesso hotel e con cui eravamo particolarmente affiatati. O meglio, mia madre sembrava molto affiatata col signor Lucchetti, mentre la signora di lui consorte pareva sempre alquanto distaccata e sulla difensiva. Io ero molto ingenuo, i diciassettenni di allora erano molto stupidi; non mi ero accorto che tra mia madre e quel signore c’era del tenero. L’avrei capito più tardi.

Io e mia madre quasi tutti giorni giocavamo a tennis nel campo dell’hotel. Di solito vincevo io, ma a mia madre bastava, credo, sfoggiare un completino bianchissimo ed elegantissimo. Il resto per lei era secondario. Erano gli anni in cui le tenniste volevano tutte assomigliare alla mitica Lea Pericoli, mentre per gli uomini l’archetipo era Nicola Pietrangeli. Ma giocammo da soli soltanto i primi giorni. Ben presto mia madre ebbe l’idea di invitare per una partita di doppio misto i coniugi Lucchetti. Da allora si giocò sempre e soltanto in quattro, noi da una parte e loro dall’altra. La cosa andò avanti per parecchi giorni. Si giocava una partita, poi si andava in spiaggia insieme, talvolta a quella del nostro hotel, talvolta in qualche altra spiaggetta. La sera si usciva per lo shopping e, se non c’erano ricevimenti, ci scambiavamo gli inviti a cena. Lo so, avrei dovuto capirlo subito, ma non mi rendevo conto di niente.

Ricordo quel pomeriggio in spiaggia. Con la sua calda voce Nico Fidenco cantava dall’altoparlante “Legata a un granello di sabbia”. Noi quattro eravamo distesi sulle sdraio a prendere il sole, impiastricciati di creme, indolenti e silenziosi. All’improvviso la signora Lucchetti, che di nome faceva Donatella (Anche lei è morta, come mio padre, come mia madre, come suo marito. Tutto quel mondo è morto) si alza, butta il cruciverba che stava risolvendo e dichiara: “Io entro in acqua. Chi mi segue?” Silenzio assoluto. Dopo un po’ mia madre mi dice: ”Dai, va’ a farle compagnia; non vorrai mica che se ne vada da sola?” Così, a malincuore (ricordo che stavo leggendo un romanzo) mi alzai e seguii Donatella. Sarebbe stato evidente a chiunque che mia madre voleva restare sola con l’amante. A chiunque tranne che a me.

Nuotammo a lungo. Il mare era calmo e l’aroma delle alghe mi pareva sensuale e quasi soffocante. Entravamo in acqua e poi ne uscivamo, camminando per brevi tratti affiancati sulla battigia. Senza accorgercene ci allontanammo di molto dal punto in cui eravamo partiti. Uscendo per l’ultima volta dall’acqua lei mi prese quasi distrattamente la mano. Andammo a sederci su un pedalò abbandonato sulla battigia. Parlammo inizialmente del più e del meno. Non so come le raccontai che scrivevo poesie e che amavo Leopardi. Donatella, guardandomi trasognata, mi disse che anche lei si dilettava a scrivere. Niente di che: raccontini, poesiole. “Mi piacerebbe che tu le leggessi; perché non vieni da me domani sera?” Disse proprio così: “vieni”, non “venite”.

Tuttavia, giunti al Bagno del nostro hotel, raccontai a mia madre dell’invito e le chiesi di accompagnarmi l’indomani dalla signora Donatella. Non potevo concepire serenamente l’idea di andarci da solo. Lei mi rispose con uno sguardo stralunato che aveva un impegno col circolo del bridge di Santa Margherita. “Ma tu vai lo stesso, non preoccuparti”.

Quella sera era un sabato sera. Ricordo anche la data esatta: diciotto agosto millenovecentosessantadue. L’anno dei missili a Cuba, dei due Giovanni, del Concilio, dei Beatles, della morte di Marilyn, del Caso Mattei. Ma io lo ricordo per altri motivi. Il mare era sempre calmo, e Santa Margherita, vista dall’interno dell’albergo, sembrava più calma del solito, quasi fosse rimasta col fiato sospeso in trepida attesa delle mie mosse. E non dovetti muovermi di molto, dal momento che dopo la cena, che stranamente consumai solo con mia madre nella nostra suite, mi trasferii dal nostro appartamento al secondo piano dell’Hotel a quello dei Lucchetti al terzo piano. Presi l’ascensore. Indossavo una camicia bianca e dei pantaloni grigi di cotone. Certe cose non si possono dimenticare. Suonai. La signora Donatella venne ad aprirmi. Era in vestaglia, un leggero indumento di seta dal colore ocra ingentilito da fitti disegni floreali. Era molto profumata. Aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle. Io, più alto di lei di una buona spanna, feci un sorriso di circostanza.  Per risposta lei mi abbracciò calorosamente mettendomi un poco in imbarazzo. Prendendomi per mano mi accompagnò in sala e mi fece accomodare sul divano, un canapè rosso a tre posti decorato con  mitologiche e dorate scene di caccia. “Che cosa vuoi da bere?” mi domandò. Io, come al solito, risposi timidamente schermendomi: “Oh, non si disturbi”. “Ma figurati, ti porto una Coca, e poi dammi del tu, intesi?”. “Va bene” risposi io poco convinto.

Donatella tornò dopo qualche secondo con un vassoio e i bicchieri che depose sul tavolino basso davanti al divano. Io, perplesso, presi tremolando la bibita ghiacciata. Stavo per dire qualcosa quando mi sentii avvolgere il collo dalle leggere, seriche e fruscianti maniche della sua vestaglia. Poi il suo viso si appoggiò sui miei capelli. Non mi mossi. Non mi mossi apparentemente, perché tutto dentro di me si muoveva. La sentii piangere, singhiozzare. Percepivo il suo profumo e ne rimasi come narcotizzato. Tra le lacrime mi rivelò di essere una donna infelice. Suo marito la tradiva, forse in quel momento stesso. “Da subito, capisci, da subito dopo il viaggio di nozze”. Non mi disse con chi la stava tradendo ora, ma se l’avessi saputo forse mi sarei liberato prontamente dal suo amplesso. Poi, come a casaccio, iniziò a sbottonarmi la camicia, portò la mano sul mio petto nudo e implume accarezzandolo a lungo muovendo la sua mano verso l’alto e poi verso il basso. Io le accarezzavo il viso. Iniziò quindi a baciarmi furiosamente dappertutto. Sentivo l’odore inebriante del suo rossetto sulle mie labbra. Quindi mi prese per mano e con foga mi fece alzare dal divano. Aprì una porta, indugiò un poco sulla soglia, fece scivolare con grazia ai suoi piedi la leggera vestaglia e mi condusse in paradiso. Quella sera dimenticammo la lettura delle poesie.

Rincasando tardi, trovai il nostro appartamento vuoto. Mia madre rientrò solo in seguito nel cuore della notte.

Ho sempre amato la letteratura. A volte mi chiedo come possa essere figlio di mio padre che si vantava di non avere mai letto un libro in vita sua. Mia madre no, lei era come me. A suo fratello la fabbrichetta di famiglia, a lei il privilegio anteguerra di un’educazione superiore. Da piccolo mi leggeva Omero nella traduzione del Monti e mi faceva addormentare narrandomi le favole antiche. Tuttavia la mattina successiva in spiaggia, noi due che eravamo così simili per tante cose, ci sentimmo un po’ più distanti del solito. Adesso vedevo mia madre un po’ più vicina al Lucchetti, forse dopo una serata galante passata con lui. Ma soprattutto ora mi sentivo attratto dalla donna che mi aveva aperto le porte del paradiso. Quella donna che non avrei più rivisto, perché mio padre, il nostro inconsapevole Galeotto, morì d’infarto la primavera successiva e noi non partimmo per Santa Margherita in quanto il lutto stretto ce lo impediva. E l’anno dopo ancora era troppo tardi.

Non so, ma, ripensando bene a quegli avvenimenti, una cosa di quell’estate ricordo in particolare con nostalgico piacere. Dopo quel giorno continuarono infatti i nostri incontri di doppio misto, ma con una variante: Donatella, come per scherzo, volle che a giocare al suo fianco fossi io. Il Lucchetti così giocò in coppia con mia madre. Ma quel che conta è che durante le pause tra i giochi,  quando eravamo seduti l’uno accanto all’altra, i nostri sguardi si incrociavano complici e lei mi donava ciò che di più dolce una donna può donare a un uomo: il suo sorriso.